Lettera di un soldato morente.
Fino all’avvento delle nuove tecnologie, lo strumento con cui i soldati comunicavano con i propri cari era la lettera. Nelle missive dal fronte emergono animi, sensazioni, paure, nostalgie e spunti di umanità incredibili in luoghi in cui si sarebbe portati a credere che la stessa potesse venire a mancare.
Se si pensa alla testimonianza musicata di un soldato morente, nella musica italiana vengono subito in mente La guerra di Piero (1968) di Fabrizio De André e Samarcanda (1977) di Roberto Vecchioni, ma i due cantautori non sono gli unici a essersi ispirati a racconti e lettere che provenivano dai campi di battaglia dei vari conflitti del ‘900.
Nel 1991 i Motorhead, il cui leader Lemmy Kilmister (voce e basso) era un grande appassionato di storia, pubblicarono l’album 1916. Il disco si chiude con la title track che si ispira alla testimonianza di un giovane soldato, morto durante la Prima Guerra Mondiale.
Il brano si apre con un’atmosfera molto solenne e nostalgica creata grazie alle percussioni e a una tastiera elettronica che accompagnano la voce melodica di Lemmy. La tonalità viene impostata in questo modo dal cantante per far trasparire l’animo del soldato e far comprendere all’ascoltatore l’atrocità del racconto.
Nella prima strofa, il giovane parla del perché a 16 anni si trovi sul Fronte Occidentale, facendo intendere di combattere la guerra con la convinzione di essere nel giusto e di avere Dio dalla propria parte. Il testo, nel suo incedere, fa intuire già dalle prime battute che la voce narrante abbia perso la vita durante il conflitto. Viene introdotto anche il concetto di eroismo che, oltre ad aver portato all’arruolamento volontario, ha aiutato il soldato a sopravvivere un anno in prima linea in condizioni impossibili.
Nella seconda strofa emergono sensazioni contrastanti relative tanto al periodo precedente dell’arrivo del soldato al fronte, quanto a quei più drammatici momenti in prima linea. Il narratore confessa candidamente di aver mentito, al pari di molti altri coetanei, sulla propria età per potersi arruolare e combattere i tedeschi sperando di finire nei libri di storia. Nel giro di poco si percepisce la presa di coscienza da parte del ragazzo del trattamento riservato ai soldati che per i superiori sono carne da macello sacrificabile sotto il fuoco nemico. La vita viene spogliata dell’umanità e le perdite diventano, agli occhi degli ufficiali, fredda reportistica.
Nella terza e conclusiva strofa è la componente della disumanizzazione del conflitto a ispirare le ultime parole del protagonista della canzone che comprende lo sbaglio commesso nell’arruolarsi. La guerra è qualcosa di troppo grande per la sua giovane vita e si accorge della solitudine che circonda tanto lui quanto i compagni d’armi destinati a morte certa.
Il ragazzo sente le urla di un amico, ferito a morte e delirante, che chiama la madre. Non ha il tempo di soccorrerlo perché viene raggiunto a propria volta da un proiettile nemico ritrovandosi nella medesima situazione. Grondante sangue e pentito della scelta fatta, invoca a propria volta la madre che non può chiaramente udire le sue ultime grida. Viene raccontato nel testo della canzone che quel giorno morirono più di diecimila uomini e che i loro nomi saranno probabilmente dimenticati. Quest’ultimo elemento è la sottolineatura più marcata nei confronti della crudeltà della guerra: oltre alla vita si perde anche il nome diventando uno dei tanti caduti.
Il divenire militi ignoti simboleggia la condanna che i Motorhead muovono alle guerre e il loro biasimo nei confronti di coloro che le scatenano, perché non solo si uccidono altre persone, i nemici, ma si è costretti a vivere in condizioni disumane e con il perenne timore della morte sempre pronta a prendersi la vita di chi sta combattendo.
1916 è un brano struggente e malinconico, in cui vengono raccontate, da un unico attore, tutte le esperienze di chi è caduto nelle trincee d’Europa poco più di un secolo fa partendo dalle motivazioni idealistiche per cui i soldati finivano al fronte e arrivando alla perdita della dignità e del nome, oltre che della vita, una volta divenuti “cibo per le armi”.
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