Oggi si parla di 7 donne e un mistero di Alessandro Genovesi, remake all’italiana di 8 donne e un mistero, film (italo) francese del 2002 diretto da François Ozon.
La trama è molto semplice: le donne di una famiglia facoltosa si ritrovano ad avere a che fare con l’omicidio del patriarca e marito, senza la possibilità di chiamare la polizia o gli aiuti e di far così immediatamente luce sulla faccenda. Rinchiuse nel luogo del delitto, diventano detective e sospettate di loro stesse, iniziando una caccia al topo in cui la parte più divertente sarà scoprire i bizzarri segreti di ognuna di loro.
La prima considerazione da fare è che si tratta, in entrambi i casi (essendo il film del 2023 tratto da quello del 2002), di una pellicola nata come adattamento cinematografico di una pièce teatrale, e nell’impostazione registica e scenografica lo si percepisce molto bene: le locations di cui si usufruisce sono molte poche (la villa e il relativo cortile, visto poco e di scorcio, ma anche all’interno della casa vengono utilizzate e perciò mostrate solo poche stanze), e la scelta delle inquadrature si rifà soprattutto ai rassicuranti primi piani/mezzi busti e a molte figure intere.
Tale riflessione non vuole essere un “j’accuse” ai lungometraggi che affondano le proprie origini e il proprio scheletro nel teatro (Roman Polanski, con Carnage, ci dimostra che la bravura registica è capace di brillare anche utilizzando un solo ambiente e quattro attori), quanto piuttosto un’indicazione sul tono del film, un avvertimento sul fatto che la godibilità di quest’ultimo sarà, inevitabilmente, data soprattutto da dialoghi sagaci e intelligenti, e dalle curiose dinamiche tra i personaggi ricreate dagli attori nella messa in scena.
In parole spicce: se il film piacerà, sarà merito di battute acute, mordaci, e dall’atmosfera dinamica e frizzantina che il cast e il regista sapranno creare.
Insomma, siamo lontani da commedie come Murder Mystery o Glass Onion - Knives Out, che, per quanto abbiano a disposizione qualche ambiente in più (ma nemmeno troppi), hanno un’impostazione completamente differente, e i movimenti di camera e di cast sono sicuramente più ritmici, meno noiosi (ma, giusto per difendere 7 donne e un mistero, le commedie americane appena citate hanno saputo giocarsi peggio le carte a loro favore, perciò 1-0 per la commedia di Genovesi).
Ambientato negli anni Trenta, il film di Genovesi funziona, nonostante le bizzarre parrucche delle protagoniste e il cast insolito. C’è chi potrebbe ribattere che funziona “proprio per” le bizzarre parrucche e il cast insolito, ma, come si suol dire, il troppo stroppia.
Alcune trovate comiche stonano (si pensi alle donne che, dopo essersi abbuffate, hanno le labbra sporche di cioccolata, ognuna con una macchia differente sul volto), raffreddando l’ilarità, o almeno il sorriso, che erano riuscite a creare fino a quel momento (si ha l’impressione che, nel momento in cui la risata dovrebbe esplodere, quest’ultima venga invece congelata, e purtroppo non avviene per un effetto di dark comedy…c’è da dire che lungi da me pretendere di conoscere davvero tutti i meccanismi umoristici, essendo il drama e il thriller i veri generi che prediligo, perciò si tratta di una constatazione puramente soggettiva).
È anche il cast, probabilmente, a convincere poco in questa commedia.
Per qualche strana ragione, a risultare molto credibile nei panni del suo personaggio, tra tutte le sgangherate personalità del film, è Ornella Vanoni, la vecchia suocera alcolizzata e sboccata, spazientita, insensibile, a cui importa poco del genero defunto e pensa invece ai titoli delle azioni che lei nasconde sotto il letto e che intende portarsi nella tomba.
Certo, nessuna delle attrici brilla per la propria performance (c’è da dire che sarebbe molto difficile, con un ruolo del genere, ottenere una candidatura per qualche premio importante…ma i David di Donatello, visti i loro spassosi trascorsi, potrebbero sorprenderci), ma Ornella Vanoni è quella che, forse perché pensa a divertirsi senza avere nulla da perdere, forse perché ha tra le mani un personaggio senza filtri così come è lei nella realtà, risulta meglio calata nella parte, mai fuori tempo o fuori luogo.
Al contrario, Micaela Ramazzotti, nei panni dell’amante parigina, della femme fatale con problemi di soldi, sembra sforzarsi eccessivamente per convincere il pubblico, tanto da chiedersi talvolta se i suoi sguardi siano creati per far ridere o per mostrare il fascino del personaggio (qualcuno che si intende meglio di me di commedie mi risolva il dubbio, per piacere!).
Una delle stelle di La pazza gioia qui si accontenta con poco, dando ragione alle maligne voci che la vorrebbero capace solo di ruoli di matte, melanconiche disperate. L’attrice sembra così concorrere a quegli ingranaggi poco ben oliati che rallenterebbero la commedia, facendola scendere di gusto e di interesse.
Altra protagonista non sempre molto convincente è Margherita Buy, la moglie e la madre, severa e infelice, che sì, riesce nel tentativo di apparire ironicamente impassibile e distaccata, anche quando discorre del marito defunto, ma l’impressione che si ha è che ella metta in pausa le sue già riconosciute e acclamate doti attoriali per fare un film…così, “tanto per” (mi immagino già i critici e i cinefili inseguirmi con i forconi, e mi rendo conto che a parlare sia anche la stizza e l’impazienza di vedere la nostra scuderia attoriale italiana non accontentarsi più e cercare film più impegnati e impegnativi…mi rendo anche conto che sia ingiusto puntare il dito contro gli attori, certo è vero che non tutti vorrebbero accontentarsi di ciò che passa al convento, ma non sempre è possibile).
Lungi da me però trasformare questa recensione in un’invettiva contro il cast. Non vuole essere tale, anche perché non è il vero freno al motore di una commedia esilarante e particolare.
Il freno è, come citato prima, l’insistenza su trovate comiche che ricordano i vecchi (e si spera defunti) cinepanettoni, affiancata a un ritmo volutamente piatto e cinico, che avrebbe funzionato molto meglio senza quest’ultima.
È come se la coerenza di un umorismo nero venisse talvolta attaccata dalla peggiore comicità grezza e infantile tipicamente italiana (Dio ce ne scampi). Un vero peccato.
Tutto sommato, non è un film riuscito male, anzi, è godibile, leggero, intrattiene e fa scappare anche qualche sorriso. È un film che, senza pretese, mette in scena con simpatia un terribile mistero, e all’inizio ci invita a scoprire il colpevole, salvo poi stuzzicarci davvero con le bizzarre personalità di quella villa, tra egoismo, passione, invidia, sciocchezza, frivolezza. Tutti affrontati con fatalismo e vis comica. Un intrigo in cui, volenti o nolenti, cadiamo coinvolti.
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