Se chiedete in giro quale sia uno dei più grandi scrittori di fumetti vivente, anche se ultimamente ha molto diradato la sua produzione, quasi tutti finiranno per citarvi Alan Moore, re indiscusso del settore specie tra gli anni ‘80 e ‘90. Anche se con incursioni in svariati generi, la sua casa resta il genere superomistico. Basti citare Watchman, V per Vendetta, The Killing Joke, tutti usciti dalla sua penna, per capire di che calibro stiamo parlando.
Eppure da ormai quasi un decennio Moore non solo non scrive e non ama più il genere dei supereroi, ma lo considera uno dei fattori del decadimento culturale e una possibile anticamera del fascismo, specie nelle sue versioni cinematografiche. Le sue parole sono: “Resto stupito che milioni di adulti facciano la fila al cinema per vedere questi film, basati su personaggi nati per intrattenere gli adolescenti maschi di cinquant’anni fa. Credo che questi film facciano male al cinema e più in generale siano un campanello di allarme di una cultura che scivola verso il fascismo”.
Moore ammette però anche che non ne vede uno dai tempi del Batman di Tim Burton, cioè dal ‘92.
Sembrerebbero quindi solo le parole di un settantenne snob, se non fosse che lui stesso è stato l’autore che per primo ha reso adulto il genere. Per capire il peso di queste affermazioni forti è doveroso un excursus nella carriera di questo artista, perché il suo rapporto con i colossi dell’editoria americana è tutto fuorché semplice.
Nato in Inghilterra, il giovane Alan è un ragazzo molto irrequieto. Se da una parte spicca per la sua intelligenza, dall’altra dimostra subito un animo anarchico – da sempre si definisce tale, anche politicamente – e da adolescente si fa radiare da tutte le scuole del regno per spaccio di droghe sintetiche. Una condanna durissima, che gli impedisce di iscriversi anche ad altri istituti inglesi e quindi di diplomarsi e poi magari laurearsi. Non avendo un titolo di studio, l’unico lavoro che riesce a trovare è quello di apprendista macellaio. A vent’anni si sente un completo reietto. La sua fortuna è che nel Regno Unito alcuni editori iniziano a pubblicare fumetti originali di supereroi, sulla falsa riga di quelli statunitensi, ma in salsa inglese.
Moore ha così la possibilità di guadagnare qualcosa firmando le storie di Capitan Bretagna e dopo pochi anni farsi notare anche dai talent scout della DC Comics, che lo ingaggiano.
La Marvel in quel periodo vende meglio della DC, che ha tante testate, ma quasi tutte da rifondare. Così al promettente ragazzo inglese dai capelli e la barba lunghissimi vengono affidate le storie di Swamp Thing, un mostro della palude dal passato umano, che ormai sembra aver fatto il suo tempo.
Il ciclo di Moore sul personaggio è breve, ma fulmineo: Swamp diventa un essere quasi mitologico, non un uomo diventato pianta, ma una pianta che ha assorbito le capacità umane, ma col pensiero della madre Terra. Di fatto un personaggio radicale, che inizia a far vedere il mondo dal punto di vista della natura e a combattere le sue battaglie contro la distruzione ambientale. Sequenze ardite, dialoghi profondi e profetici, in poco tempo diventa una serie d’autore. Il reietto Moore viene fatto sedere al tavolo dei grandi autori, osannato e pagato come loro. Ma resta sempre un anarchico.
Così quando arriva su testate quali Batman e Superman, pur riuscendo a mantenere il proprio graffio, inizia a sentire le briglie della redazione, degli editor, dei paletti imposti dall’alto, che sulle serie decotte degli inizi certo non aveva. Qui inizia l’amore/odio di Moore per i supereroi. Ottiene una serie breve tutta sua: Watchman, uno dei capolavori del genere, difficilmente eguagliabile, che fa scrivere fiumi di inchiostro, al suono di “I fumetti sono diventati adulti”.
L’idillio dura poco: Moore conoscendo le vecchie volpi della DC, pretende di inserire nel contratto di Watchman una clausola secondo cui se per due anni il titolo non verrà ristampato, tutti i diritti editoriali torneranno a lui. Alla DC però non sono nati ieri e, dato l’enorme successo della serie, tra varianti, ristampe, Omnibus, versioni critiche e quant’altro, fanno in modo che Watchman non esca mai dai cataloghi garantendosi il mantenimento dei diritti.
L’animo anarchico di Moore riprende il sopravvento, chiude i rapporti con l’America e fonda una propria casa editrice, che da alle stampe in modo quasi clandestino From Hell, altro capolavoro, stavolta senza supereroi ma su Jack lo squartatore che lo riporta in auge; ben presto però la sua mente si riempie nuovamente di storie con eroi in calzamaglia, anche se in salsa più esoterica, perché quello è il suo pane, ma la sua piccola casa editrice non se la passa benissimo così viene assorbita da altri editori e poi da altri ancora finché, beffa del destino, finisce in mano alla DC. Moore all’inizio si rassegna e poi pian piano si ritira dai fumetti, per darsi ai romanzi e alle performance dal vivo.
Senza più il controllo sui diritti delle opere, Moore vede uscire film tratti dai suoi fumetti e rimane così deluso da La lega degli Straordinari Gentleman e da From Hell, da decidere di far togliere il suo nome dai crediti di Watchman, che definisce: “il solito piatto di vermi della DC”.
In conclusione la riflessione di Moore è forte ed è giusto interrogarsi se il modello pompato e spesso estremo dei Cinecomics non semplifichi troppo la realtà, ne dia una visione infantile nelle risoluzioni, superficiale, addirittura paragonabile a quello di alcuni regimi della storia, ma forse ci vorrebbe qualche altro autore di peso di fumetti che sposi questa teoria, magari però senza un passato così burrascoso e conflittuale alle spalle.
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