Sarajevo, primavera del 1992, le notti sono ancora fredde nelle strade della capitale bosniaca e la guerra impazza in ogni angolo delle stesse, distruggendo tutto ciò che trova. Le truppe serbo-bosniache stanno assediando la città, un evento che vedrà fine solo agli inizi del 1996, e tra i palazzi che bruciano ci sono anche le biblioteche e i luoghi culturali sarajevesi.
“S’alzano i roghi al cielo/S’alzano i roghi in Cupe vampe”, recita così il ritornello della canzone dei CSI che racconta uno degli episodi più dolorosi della guerra d’indipendenza bosniaca, quello che vede bruciare tra le fiamme la Biblioteca Nazionale. Secoli di storia, cultura e di incontri tra popoli che cedono al fuoco, ai colpi delle bombe e dei mortai. La città muta trema e assiste quasi immobile ai tentativi di alcuni volontari di salvare libri secolari, testi che narrano dell’incontro tra le tre tradizioni slave (del sud, dell’est e dell’ovest), ottomane (poi turche, siriane e curde), albanesi, nordiche e dell’Europa che viveva oltre la cortina di ferro (italiane, tedesche e spagnole, queste ultime dovute agli ebrei sefarditi fuggiti dalla penisola iberica durante la diaspora del 1492).
Le prime due strofe, quasi sussurrate dalla voce di Giovanni Lindo Ferretti, raccontano le sensazioni elencate nelle righe poco più sopra e, dopo un ritornello somigliante ad un canto religioso, si giunge alla terza strofa che dona una componente umana ai libri. Ovvero il loro significato simbolico, quello che li lega ad essere percorsi, mappe e aiuto nel clima che circonda Sarajevo in quei primi mesi di conflitto. E la città diviene anche lei umana, trema come chi è costretto a sopravvivere, vivendo per le strade, nelle fogne o in quel poco che si è salvato di alcuni edifici.
E la canzone, seguendo il suo lento incedere, arriva al punto in cui la voce di Ferretti diviene accusativa, prima descrivendo il passaggio che si cela agli occhi degli assediati, costretti a fuggire dai cecchini, e poi urlando contro chi sta muovendo i fili della guerra. Tra questi appaiono i tre attori principali in causa, ovvero Milosevic, Tudjman e Izetbegovic (“i preti, i pope e i mullah”) e chi lavora per le loro rispettive cause (ONU, NATO e vari capi religiosi e politici appartenenti ad altri stati).
L’accusa continua e sottolinea che a morire, per l’arroganza di chi sta al potere, è la civiltà. Essa si cancella durante l’assedio e il fuoco sulla biblioteca rappresenta un ulteriore passo verso la sua distruzione, verso la banalità del male umano.
Dopo l’atto accusativo, il tono si fa ironico e sarcastico. La vita dentro al catino rimanda all’immagine dei sarajevesi assediati, mentre la bella vita del cecchino è il simbolo di quanto macabramente i tiratori scelti si divertano a uccidere; la bellezza di vivere a Sarajevo diviene un grido contro la viltà umana. Quella che porta la guerra, che vuole solo distruggere la vita e che non guarda in faccia a nessuno, non risparmiando nemmeno la storia e la cultura di un territorio.
La biblioteca brucia fino alle prime luci del giorno seguente al suo bombardamento, ognuno, anche a chilometri di distanza, la vede nel grande rogo e, riconoscendola, quella notte non riesce a dormire. Il simbolo della fratellanza jugoslava sta diventando cenere, come la fratellanza stessa tra i popoli slavi del sud, e quel fuoco, a trent’anni di distanza, nei cuori dei sopravvissuti ancora non si è spento.
Cupe vampe, con le sue melodie quasi oscure e scandite da parole glaciali, ci trascina nella Jugoslavia segnata dai conflitti e ormai decadente, dove anche il vicino di casa, può divenire il peggior nemico pronto ad uccidere chi prima era considerato un fratello. La notte scende sulla terra degli slavi del sud ed un tentativo di riconciliazione per spegnere il fuoco della biblioteca umana, ancora oggi, sembra troppo lontano per poter nuovamente accendere la luce più sicura della pace e della fratellanza tra i popoli.
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