Tra i tanti concetti alla base della filosofia legata al movimento punk, c’è quello che rimanda alla noia. Spesso è esistenziale non riuscendo i giovani a trovare un senso alla propria vita e non di rado è legata alle difficoltà di approcciarsi al mondo degli adulti, spazio in cui i ragazzi faticano a trovare posto.
Per i punk rockers inglesi, il concetto viene sviscerato in “Boredom” dei Buzzcocks in cui la parola noia stava a simboleggiare le difficoltà dei ragazzi tra i 20 e i 30 anni nell’Inghilterra d’epoca Thatcheriana o nei poster dei Sex Pistols. Per i punk jugoslavi, la parola riappare con un contorno più lapidario. Nel 1979 i Pankrti pubblicano l’album “Dolgcajt” (in italiano: Noia) raccontando quanto la loro generazione sia segnata dal regime Titino e dalle prime avvisaglie di nazionalismo nel territorio slavo del sud.
E l’Italia? Anche nel belpaese iniziano ad emergere i primi movimenti punk, ma si affacciano su una sfera più legata al demenziale e prestando attenzione anche al periodo storico-sociale italiano, dato che comunque il contesto era quello degli anni di piombo e il punk era visto come un movimento ribelle, in cui potevano trovare rifugio giovani con ideali simili a quelle estreme che condizionarono ferocemente gli anni ’70.
Per esporre il concetto di noia, in Italia, bisognerà aspettare il 1986 (sei anni dopo la strage di Bologna) e l’affermazione sulla scena musicale italiana di una nuova band, fondata da alcuni ragazzi di Carpi (MO) rientrati in Italia dopo qualche anno di vita a Berlino. I CCCP Fedeli alla Linea con l’album “Affinità e divergenze”, portano un nuovo modo di fare punk in Italia e, con la canzone di chiusura del disco “Emilia paranoica”, riescono a inserire nel dizionario musicale italiano un proprio concetto di noia.
La noia viene però rivisitata secondo un’altra visione, legata sia alla fine degli anni di piombo, sia a quanto fosse deludente per un giovane vivere in una provincia che non dà stimoli e che lo allontana dalla vita pubblica. Il titolo, urlato inizialmente da una voce in falsetto, è quello di una generazione che vorrebbe essere ascoltata, ma che, come evidenzia il testo poco più avanti, rimane in attesa di un’emozione sempre più indefinibile. Un’emozione che si perde, anche quando viene lanciato un guanto di sfida, ovvero quello dei teatri vuoti e inutili che potrebbero affollarsi se l’Emilia decidesse di impersonare sé stessa, quindi di recitare il senso di vuoto giovanile che porta con sé.
Il viaggio dei CCCP non termina qui perché, in rapida successione, vengono citati alcuni elementi che alimentano le menti giovanili, più universitarie che adolescenziali: la cronaca estera, lo sviluppo di un pensiero politico-religioso e il ritorno alle origini del punk. Lo scenario si compone con immagini che rimandano al passo biblico di Tiro e Sidone, ai bombardieri in volo su Beirut e alla provocazione di ritornare al ’77 (l’anno d’oro del punk).
I giovani sembrano così indifferenti a questa vita da trovare come unico antidoto alla noia il mescolare Roipnol e alcool. Vivono la monotonia, dovuta alla noia, in preda a un costante stato di sedazione dovuta al cocktail di farmaci e alcolici, per poi cercare delle soluzioni in frequentazioni interessanti per ovviare con stimoli alternativi al divertimento che latita nella vita di provincia. Alla fine, trovato con chi annoiarsi, si cammina leggeri e soddisfatti, ma la meta precisa viene definita solo al termine della strofa: si passa da Parma, Reggio Emilia, Modena e Carpi per giungere infine al Tuwat, un centro sociale che racchiude al suo interno i punk rockers delle province emiliane e che sembra essere l’unico luogo in cui potersi divertire.
Le notti emiliane si dissolvono in fretta, smarrendosi nell’inquietudine di un’agitazione che è momentanea, che satura gli istanti e poi anch’essa si perde nella noia della provincia e si trascina malinconicamente fino alle luci dell’alba. In questo scenario non si ambisce a un ritorno alla felicità e all’amore che è visto come un qualcosa di così distopico che la seduzione è raffigurata col dormire, un’attesa di un sentimento che resiste con fatica e che ancora non muore.
Le variazioni di ritmo del brano, legate a due differenti linee di basso, preponderante rispetto agli altri strumenti, riportano al grido d’inizio e a quell’emozione attesa e sempre più indefinibile.
La canzone arriva alla fine con l’urlo di Ferretti che, con un effetto eco, sembra perdersi nel vuoto esistenziale raffigurato nel testo e teso a congelarsi tra le campagne e l’Appennino.
Con le sue rappresentazioni di disagio giovanile, di noia e di vuoto, “Emilia paranoica” diviene il manifesto generazionale dei giovani italiani post strage di Bologna, una o più generazioni che ancora soffrono per gli eventi che hanno sconvolto l’Italia e che sentono il bisogno di urlare quanto sia ingiusto per loro vivere in un clima segnato dalla paura e dalla noia che ne costituisce una diretta conseguenza.
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