"Non posso farci nulla".
Quante volte abbiamo detto o sentito questa frase; di fronte ai molteplici ostacoli che la vita ci pone davanti talvolta si può dire solo questo, come l'epitaffio di una volontà, la bandiera bianca morale per antonomasia.
Quando possiamo dire di avere il pieno controllo della nostra vita? E questo controllo ci rende davvero liberi?
Gli artisti cinesi Sun Yuan e Peng Yu hanno presentato una risposta tanto concisa quanto angosciante alla Biennale di Venezia del 2019, con la straziante installazione "I can't help myself", creata nel 2016.
Un imponente braccio robotico racchiuso in una teca, con trentadue movimenti programmati e apparentemente un unico compito: tentare di contenere continuamente una distesa di liquido rossastro e vischioso, simile a sangue, che irreversibilmente si espande ogni volta.
All'inizio i movimenti sembrano stranamente simpatici; sincopati eppure armoniosi, una specie di danza giocosa che accoglie lo spettatore.
A tratti sembra quasi provare gioia, quella grossa appendice artificiale tutta sibili e cigolii.
Eppure più il robot cerca di adempiere al suo dovere, a ciò per cui è stato programmato, più la sostanza vermiglia si espande; scivola, scorre inesorabile, incontrollabile, gli si coagula addosso, schizza dappertutto imbrattando le pareti della teca.
Sembra in difficoltà, un po'impacciato, il braccio meccanico più che meravigliare comincia a fare tenerezza agli astanti; pare un giovane apprendista che si destreggia per la prima volta tra più compiti, ignorando (volutamente o meno) la palese crescente inadeguatezza del protagonista dell'opera, che sta lentamente annaspando tra i suoi doveri.
Alla gestualità sinuosa si alternano guizzi virulenti e selvaggi, con il vago liquido scarlatto e denso a fare da sfondo l'arto meccanico da festoso a tenero comincia a sembrare inquietante nella sua apparente imprevedibilità.
Semplicemente perché all'inizio sembrava avere il pieno controllo della situazione, mentre lo scorrere del tempo ha messo in luce la sua evidente imperfezione davanti agli eventi.
E quando un viluppo di cavi e acciaio animato da un software comincia a mostrare la sua umanità, non puoi che sentire un tremore altrettanto umano lungo la schiena.
Perché quella sostanza sinistra che tenta costantemente di padroneggiare lo tiene in vita.
Una volta raggiunta questa consapevolezza, alla paura si stringe con lentezza la sofferenza.
Nel vedere quelle movenze prima energiche perdere lentamente vigore, inframezzate da scatti convulsi e spaventosamente angosciati, lo spettatore a questo punto non può non riconoscersi almeno in parte nel martirio a cui sta assistendo.
Quante volte cerchiamo di avere il controllo su molteplici aspetti delle nostre vite, anche istintivamente?
Se un bicchiere d'acqua si rovescia non cerchiamo irrazionalmente di fermarne il flusso con le mani (parafrasando le parole dei due artisti)?
Quanto il libero arbitro interferisce con il nostro naturale istinto di controllo come sicurezza?
Se siamo costretti a controllare ciò che non riusciamo a contenere quanto possiamo considerarci individui liberi?
Queste domande risuonano come i lamenti delle giunture di quel braccio robotico martoriato, costretto a mantenersi in vita e impossibilitato a farlo al tempo stesso.
Un Sisifo replicante che si lascerà morire lentamente nello stesso anno della sua esposizione a Venezia, nel 2019.
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