Il Colibrì, trasposizione cinematografica con la regia di Francesca Archibugi dell’omonimo romanzo di Sandro Veronesi, è un film che definirei denso e che ritengo possa aver restituito in modo efficace il carattere turbolento e cronologicamente variegato dell’opera dal quale è tratto.
Il film si articola, infatti, su svariati piani temporali, che, in una continua alternanza, raccontano praticamente l’intera esistenza del protagonista, Marco Carrera (Pierfrancesco Favino). Accattivante l’utilizzo della scena della funesta telefonata ricevuta da Carrera come perno intorno al quale far diramare la rete delle digressioni.
Pur nei frequenti spostamenti cronologici, il racconto procede in modo piuttosto chiaro, anche grazie al sostegno offerto da alcuni dettagli scenografici che a prima vista potrebbero sfuggire, come i modelli di automobili che aiutano ad inquadrare i diversi periodi in cui si svolge la vicenda. Il montaggio risulta dinamico ma ben organizzato e rispettoso dello spettatore.
Il film è girato secondo uno stile allineato a un principio di realismo, di restituzione della quotidianità dei protagonisti, perciò non presenta elementi di particolare rilievo o novità.
Per quanto riguarda l’aspetto interpretativo, merita un’attenzione particolare il lavoro compiuto da Favino, che ancora una volta non si smentisce nella sua grande capacità di restituire con calore ed umanità, senza artificiosità, le emozioni del personaggio che interpreta, che, in questo caso, sono molteplici e alquanto dolorose. Interessante anche l’interazione di Favino con gli altri attori, in particolare con Nanni Moretti e con Benedetta Porcaroli, interprete dell’Adele adulta. Favino e Moretti, che impersona lo psichiatra della moglie di Carrera, formano una coppia attoriale molto convincente, nella rappresentazione della profonda amicizia maschile che si crea tra i due personaggi. Per quanto riguarda il duo Favino-Porcaroli, si può dire che i due attori siano molto in sintonia nella raffigurazione del rapporto padre-figlia vissuto dai loro personaggi. Diciamo che la Porcaroli sta bene nella parte della giovane figlia affezionata e complice del padre e, del resto, Favino è, in un certo senso, avvantaggiato anche dal proprio aspetto fisico nel rappresentare la figura del padre premuroso.
Il tema della relazione padre-figlia è trattato con una certa cura nel corso del film, con momenti di notevole tenerezza, come la scena nella quale Carrera aiuta la piccola Adele a fare il bagno e intanto le offre parole rassicuranti a proposito della spaventosa tematica della morte.
Altre due attrici sono in particolar modo degne di nota, nel film. In primo luogo, Kasia Smutniak ci offre un lavoro interpretativo veramente intenso, dimostrandosi ben capace di dare corpo ad un personaggio complesso e drammatico come quello di Marina, moglie di Carrera. Dobbiamo rendere merito anche a Fotinì Peluso, che, pur nella sua giovane età, è riuscita a restituire in modo davvero degno il senso di oppressione, di soffocamento, vissuto dal personaggio di Irene Carrera, sorella di Marco.
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