Si configura come un lavoro importante l'ultimo film di Matteo Garrone. È, infatti, uno dei pochi lungometraggi non documentaristici che trattano la questione delle terribili condizioni legate all'immigrazione africana in Italia e, soprattutto, il film si distingue per il fatto di narrare la vicenda dal punto di vista dei migranti stessi. I fatti sono ispirati all'esperienza di viaggio vissuta davvero da alcuni ragazzi.
È risaputo che gli itinerari che molte persone compiono da alcuni Paesi africani sono le più adeguate rappresentazioni di quelli che si definiscono “viaggi della speranza”, per l'entità del percorso, per le angherie che i migranti devono sopportare. È noto, è vero. Ma il fatto di vederlo rappresentato sullo schermo, in un'opera cinematografica, fa davvero riflettere lo spettatore su quanto ciò che alcune persone che emigrano da certe parti dell'Africa vivono sia veramente inimmaginabile da parte di chi ha semplicemente avuto la fortuna di nascere altrove. È uno di quei casi in cui il cinema diventa uno strumento informativo davvero efficace, perché in grado di comunicare con un'ampia gamma di persone, di raggiungerle, di toccarle.
Io capitano illustra, infatti, molto dettagliatamente le diverse fasi che compongono il viaggio di Seydou e Moussa, i due protagonisti, che dal Senegal decidono di raggiungere l'Italia. Il racconto è anche crudo e crudele, in certi momenti; tuttavia, il film, pur non esitando a far star male lo spettatore, non dimentica la dolcezza, la tenerezza, che dona, soprattutto, attraverso gli occhi quasi bambini del sedicenne Seydou. La pellicola ci mostra molto realisticamente il candore e i timori di un ragazzo così giovane, il quale, però, riesce a dimostrarsi una persona dotata di una forza d'animo, di un coraggio e di un amore per il prossimo che solo pochi uomini adulti hanno.
Io capitano è un'opera particolare e significativa anche perché ci racconta la partenza di due ragazzi che decidono di andarsene non perché spinti da disagi o necessità impellenti e non più sopportabili, ma perché desiderosi di cercare un'esistenza migliore ed orizzonti che la vita in Senegal non può dar loro. Certamente, nondimeno, le condizioni in cui vivono sono più che umili e la possibilità di poter mandare un aiuto ai familiari è un'altra motivazione che li convince a partire. Il film ci mostra, insomma, una prospettiva diversa, meno nota e “scontata”, esponendo chiaramente anche le aspettative che i due ragazzi candidamente nutrono sull'Europa, aspettative che un conoscente adulto cerca, peraltro, di smontare.
Anche dal punto di vista fotografico, Io capitano mantiene un alto livello, se pensiamo, soprattutto, alle affascinanti sequenze ambientate nel terrifico deserto del Sahara. Piccola pecca, forse, potrebbero essere le immagini un po' visionarie e “fantasy” che mostrano personaggi sospesi in aria, come volanti; tuttavia, pur apparendo un po' fuori contesto in un film del genere, esse potrebbero essere giustificate come rappresentazioni dell'ingenuo universo immaginifico di Seydou, che, pur dovendosi comportare da uomo, è, in realtà, poco più di un bambino.
Io capitano è un film molto originale anche per gli spaccati di vita senegalese che offre allo spettatore: immagini di vita domestica, di vita urbana come quelle non sono frequenti per gli occhi del pubblico europeo, soprattutto all'interno della produzione non documentaristica. Inoltre, anche sul piano linguistico, la pellicola risulta istruttiva, dal momento che si svolge per gran parte in lingua Wolof, l'idioma principalmente parlato in Senegal (lingua ufficiale accanto al francese).
Per concludere, Io capitano senz'altro non è un film che si possa guardare per svago, come elemento di distrazione. È un film duro, ma di grande importanza sul piano informativo, che riesce a commuovere e ad interessare molto lo spettatore.
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