L’avversario è un libro sulla follia che nasce dall’esigenza dello scrittore Emmanuel Carrère di raccontare il profilo di Jean-Claude Romand, uomo al centro di un atroce fatto di cronaca avvenuto nel 1993 in Francia, che ha sconvolto l’opinione pubblica.
Jean-Claude Romand, un uomo apparentemente rispettabile, con un lavoro di prestigio, uccide la moglie, i figli, i genitori e il cane. Prova ad ammazzare anche l’amante non riuscendoci e fallisce infine nel tentativo di suicidarsi ingerendo una dose massiccia di sonniferi scaduti. Riescono a salvarlo e, nel momento in cui lui sopravvive, iniziano a venire a galla tutte le menzogne che lo hanno portato a compiere un gesto tanto estremo. Jean-Claude, il vicino di casa esemplare, gentile e disponibile, aveva mentito per diciassette anni su chi era e cosa faceva. Non era vero che avesse un lavoro redditizio all’Onu e che si fosse laureato in medicina. Riusciva a mantenere uno stile di vita agiato compiendo dei raggiri, approfittando della fiducia delle persone intorno a lui e convincendole ad affidargli i propri soldi per degli investimenti sicuri. Era una bugia, che ne aveva poi portate altre, che sorreggeva quell’apparente famiglia e vita perfetta di un rispettabile cittadino borghese.
Questo evento sconcertante, ha portato Carrère a voler raccontare questa vicenda, ma lo ha voluto fare contattando direttamente il carnefice perché voleva conoscere e approfondire quanto fosse accaduto attraverso il suo punto di vista. La decisione di Carrère è stata una scelta narrativa: a livello romanzesco la forza di sentire la voce di colui che ha compiuto gli omicidi era più conturbante e interessante agli occhi dello scrittore.
Inizialmente Carrère ha faticato a raggiungere Jean-Claude perché si trovava in prigione. Questa impossibilità di rifarsi a lui, ha portato Carrère a scrivere un libro, di pura finzione, ispirato al crimine di Jean Claude: La settimana bianca. La settimana bianca è, infatti, un romanzo che si concentra sulla tematica della bugia e dell’ambiguità, sfociando in un inevitabile senso di inquietudine che accompagna il lettore pagina dopo pagina.
L’avversario è considerato uno dei capolavori di Carrère, racchiude tutta la forza di questo autore che, per la prima volta, abbandona la narrativa pura per una struttura originale, un ibrido tra realtà e finzione, dove si inserisce l’elemento autobiografico. Da qui in avanti nelle storie di Carrère non conosceremo solo le vicende che porta alla nostra attenzione, ma arriveremo a conoscere anche Carrère stesso. Ovviamente, come lui stesso dice, il racconto di sé è filtrato dalle sue scelte, tra ciò che decide di mostrare, da come decide di mostrarlo e ciò che invece nasconde senza che noi possiamo accorgercene.
La storia si sviluppa tramite anticlimax. Carrère fin dalla primissima apertura avverte i lettori della tragedia incombente e degli omicidi che vengono compiuti alla fine della storia. Il lettore viene reso subito partecipe dell’azione tragica e l’attenzione si sposta su altro: sul personaggio di Romand, sull’analisi della sua persona, il ruolo di Carrère, la fede, la banalità del male. L’elemento tragico permea tutto il racconto rivelandosi in sfumature così variegate da far sì che ogni lettore possa scegliere a quale verità credere.
Il libro è una trascrizione lucida apparentemente cronachistica, non prende posizioni, non è moralista, non è giudicante; il rischio era molto alto, ma Carrère scrive talmente bene da evitare queste trappole. L’analisi cronachistica e tutti i dettagli avvenuti sono riportati senza un occhio morboso, racconta i fatti come sono avvenuti in un intreccio molto romanzesco a ricordarci l’assurdità della nostra esistenza e su come si crei un continuo conflitto tra la realtà e la finzione.
La posizione di Carrère in questo libro può essere sentita come ambivalente. Si può ritenere che dietro la sua narrazione vi sia un’ipocrisia di fondo, sia nello scegliere questo tema come anche nel modo in cui interagisce e poi scrive delle persone che incontra. Io sono più dell’idea che lui abbia voluto mettere in evidenza la sua umanità e umiltà nello scrivere questo libro e nel riproporre al lettore la storia raccontata con uno stile essenziale e un approccio antropologico e giornalistico, senza scadere nei cliché che possono accompagnare una letteratura legata ai serial killer. Carrère differenzia la sua scrittura nel libro, comprensiva anche di opinioni alle volte taglienti, benché mai preponderanti rispetto al resoconto che sta trattando. La redazione di questo testo è un’operazione oggettivamente non oggettiva, in quanto parte da una persona reale e da fatti reali, un’oggettività come completo distacco non potrebbe sussistere. Nonostante l’autore non si estranei completamente da ciò che racconta, ti permette di formulare una tua visione pur presentandoti la sua.
Carrère non fa mai riferimento a una diagnosi per Jean-Claude, nonostante abbia potuto consultare i referti degli psichiatri che lo hanno visitato. Se Carrère avesse riferito la patologia che è stata riscontrata in Romand, in primo luogo si sarebbe perso tutto il peso che viene dato alla religione; la narrazione sarebbe inoltre diventata la cronaca su una persona malata, il lato umano sarebbe stato rovinato e sottostimato, perché avremmo finito per identificare la diagnosi con l’uomo. Sarebbe venuta meno l’identificazione con il personaggio in quanto lo avrebbe reso più lontano dalla nostra realtà e normalità.
Si mette in evidenza la dimensione umana del mostro che potrebbe essere presente in tutti noi, è il male che esplode come conseguenze, più che come male insito, ciò che si percepisce dal romanzo è che il male è insito in tutti noi, però lo controlliamo. Un passo fondamentale in cui questo senso emerge al momento del bivio in cui il protagonista si trova all’università, quando Romand non accede al terzo anno e inizia a mentire. Parliamo di una realtà che, per quanto brutta, ci potrebbe vedere in prima persona a cadere in questo circolo di menzogna. Carrère indaga forse proprio la possibilità di immedesimarsi con il mostro, ma così facendo ne mostra anche l’umanità stessa perché ciò che lo porta a diventare ciò che è potrebbe capitare a chiunque di noi. Anche la stessa infanzia difficile del personaggio che, pur non avendo subito abusi fisici, in qualche modo è stata segnata in modo traumatico dalle menzogne che gli sono state raccontate. È quasi paradossale che il protagonista nei diciassette anni di menzogne abbia riproposto lo stesso schema con cui è stato cresciuto: vivere una vita all’insegna della sincerità, umiltà e trasparenza, ma poi nascondere delle scomode verità.
La scelta del titolo non è casuale, l’avversario a cui fa riferimento Carrère non è altro che l’anticristo, Satana, l’avversario di Dio, quella parte di noi che può essere vista come il lato malvagio contro cui ognuno di noi si scontra in modo inevitabile.
Dall’analisi che esce fuori dal libro Jean-Claude è una sorta di avversario del bene, un uomo che ha trovato agio nelle proprie menzogne, agio anche dal punto di vista psicologico con la creazione di una vita illusoria che non esiste. L’impossibilità di Romand di avere una propria identità è ciò che più colpisce durante la lettura di questo romanzo. Ciò che Jean-Claude fa è omologarsi a una condizione sociale, quella di marito, padre e lavoratore poi, una volta finito in carcere, diventa l’assassino che si converte e salvato dalla fede. Durante il processo non si capisce mai se ciò che emerge è la vera personalità di Romand, come se ogni tanto tu possa avvertirla, ma è così flebile e intermittente che dubiti di aver visto davvero Romand. Carrère dice che di solito si mente per coprire qualcosa, Jean-Claude mente pur non nascondendo nulla, come se alla fine l’unica verità che gli rimane altro non è che un’ulteriore menzogna e non possa più creare e trovare qualcosa di suo. È estremamente difficile definire il sé di Romand in quanto persona perché non esiste un unico e vero Romand.
In questo romanzo la tragicità di Romand si può analizzare seguendo due filoni, quello della comparazione con la tragedia dei testi classici e quella invece della reinterpretazione che ha condotto fino alla sua visione, possiamo dire, contemporanea, più variegata e inclusiva, ma anche distesa e permissiva.
L’eroe tragico nella tradizione è un uomo di spessore morale e sociale e Romand, per quanto sotto mentite spoglie, rientra in questa definizione. Inoltre, nella poetica di Aristotele la tragicità di un personaggio si identifica in un uomo a metà, ossia né troppo virtuoso, ma neppure esclusivamente malvagio, e anche in questo Romand rientra. A differenza delle tragedie classiche non è presente la catarsi legata alla morte del protagonista. Tuttavia, si possono identificare diverse forme di catarsi direzionate a seconda di chi guardi. Se alla fine della lettura tu ti chiedi come sia possibile che nessuno abbia scoperto prima le menzogne di Romand ti stai immedesimando con gli altri personaggi della tragedia. Se invece ti immedesimi in Romand senti la vicinanza con la sensazione di soccombere alle proprie responsabilità.
Nel presente non è possibile separare Romand dalla tragedia perché la vicenda in sé è oggettivamente tragica, sia nei risvolti personali di Romand, della sua incapacità ad avere un’identità, come anche dello sterminio della famiglia e degli effetti che questo evento ha nella comunità. È, dunque, una tragedia sia quella individuale, di Romand, di Carrère e di noi lettori, presi però come singoli, sia quella collettiva di chi la vicenda l’ha vissuta come comunità.
In linea generale posso affermare che la percezione che si ha del testo, deriva molto dalla consapevolezza che ciò che abbiamo letto non sia un’opera di finzione e che questo aspetto influenzi inevitabilmente noi come lettori. Immergendoci in queste pagine, credo che siano due gli impulsi che potremmo sperimentare e che dipendono molto dalla ricezione che ognuno di noi ha e non c’è, dunque, un’univocità. Potremmo riscontrare un allontanamento da ciò che stiamo leggendo, purificandoci nel distacco dalla possibilità di poter compiere un atto simile. Oppure, potremmo sperimentare una vicinanza finale dettata dalla percezione che Roman sia molto meno diverso da noi rispetto a quanto vorremmo che fosse.
La presenza della fede, in cui Romand si rifugia per avvicinarsi al pentimento, al perdono e alla redenzione, ci può spingere a pensare che ciò che lui ricerchi tramite la religione sia un contatto con la realtà e un modo per spaziare dalla monotonia e dal carcere. Nella religione si potrebbe anche identificare il vero marchio del tragico, nel vedere l’irresponsabilità che la religione cattolica concede a Romand. Il protagonista sembra tutto fuorché un buon cristiano prima di finire in carcere e “redimersi”. Proprio per questo, se di verità possiamo parlare, credo si possa scindere in due visioni in questo testo, quella umana e quella religiosa. Per quel che concerne la prima non si arriva a una verità conclusiva in quanto a livello umano non riusciamo a trovare una risposta al comportamento di Romand. Sul piano cattolico si cerca di dare una direzione, i cristiani distinguono un bene e un male, che porta a giustificare in qualche modo le azioni di Romand, in quanto manovrato dall’avversario e gli si dà una possibilità di redenzione rappresentata dal perdono. Tuttavia, per una persona che non è mai riuscita a essere se stessa, ad avere un’identità reale e non costruita, si finisce per domandarsi se questa conversione e l’avvicinamento a Dio non siano altro che un’ulteriore nuova identità che Romand si è costruito per sopravvivere.
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