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La questione Lidia Pöet: donne e avvocatura

Aggiornamento: 15 ago

“La Libertà e la Capitale, discutendo sull’ammissione della signorina Lidia Pöet nel collegio degli Avvocati di Torino, sostengono di doversi lasciare aperta alle donne la carriera delle professioni liberali.” – La Stampa, 26 agosto 1883 


4 aprile 1884. La sala d’udienza della Corte di Cassazione di Torino è gremita di gente. Ci sono moltissimi curiosi, tutti attratti dalla causa insolita che presto verrà trattata: professori universitari, giornalisti, avvocati e magistrati. Fra le file si notano anche alcune signorine, venute a sostenere la giovane donna che ormai rappresenta un caso nazionale e un mito per la conquista di un nuovo diritto tutto al femminile. 



La tensione è palpabile, la fibrillazione di conoscere l’esito è alle stelle. Fra gli astanti, è palese che i pareri della folla si dividano a metà, chi ci sta e chi no. Sussurri circospetti e mormorii indignati serpeggiano per tutta l’aula ed è possibile cogliere frasi volanti come: “Tu con chi stai?” e, in risposta, “con la Pöet.” E via con una stretta di mano e uno sguardo d’intesa. 

Oppure, “In cosa speri?”

Mah, che sia respinta.”

Hai torto.”

Può essere, ma sai come la penso. Le donne stiano in cucina e facciano la calza.”


Oggi, grazie anche al fortunato esordio della serie Netflix “La legge di Lidia Pöet”, la causa di questa straordinaria e inconsueta donna è venuta più alla luce. I casi all’interno della serie naturalmente sono inventati, così come alcune “licenze narrative” volutamente anacronistiche quali, per esempio, gli abiti della protagonista, che indossa pantaloni e giacche di pelle che all’epoca non si usavano. Eppure, Lidia Poët è esistita veramente e ha vissuto a Torino nella seconda metà dell’800, scatenando una vera rivoluzione nel mondo della giustizia italiana.

La sua storia non è nota come dovrebbe, ma è stata la prima donna laureata in Legge, un’avvocata a cui fu revocata l’iscrizione all’albo solo perché donna” racconta l’attrice Matilda De Angelis, al suo primo ruolo da protagonista nella serie. “È stato emozionante raccontare la storia di una donna così poco conosciuta ma fondamentale per l’avanzamento dei diritti.”

Lidia Poët (1855 – 1949) viene ufficiosamente considerata come la prima avvocatessa d'Italia – sebbene occorra precisare che la vera pioniera fu Giustina Rocca, la Pöet fu però la prima a iscriversi all’Albo – e la sua vita fu ricca di tante altre battaglie: combatté per l'emancipazione femminile e fu una delle prime a sostenere le riforme necessarie al diritto penitenziario che conosciamo al giorno d’oggi. Lottò durante tutto il corso della sua vita per raggiungere i propri obiettivi, rivendicando il suffragio universale e confermando la sua adesione ai primi congressi femministi. 

Discendente da un’agiata famiglia valdese, la giovane Lidia, seppur orfana, era una ragazza tenace e determinata, abituata a non lasciarsi abbattere da nessuna difficoltà. Dopo aver frequentato un collegio svizzero e aver conseguito il diploma da maestra, riuscì a convincere i familiari a lasciarle continuare gli studi. Nel 1881, all’età di ventisei anni, discusse la sua tesi sulla condizione della donna nei confronti del diritto costituzionale e amministrativo alle elezioni, il che le valse la tanto agognata laurea in giurisprudenza. Ma Lidia sognava, e sognava in grande.

La laurea non era che il primo passo della sua rivendicazione. Voleva di più, non le bastava essere in possesso di quel mero titolo e poi non farsene nulla: desiderava fortemente esercitare quella professione che le bruciava nel petto. Sognava di iscriversi all’Albo, sognava di fare l’avvocato. Anzi, l’avvocatessa. Era pienamente a conoscenza che ciò, all’epoca, non fosse permesso; tuttavia, una domanda continuava a ronzarle in testa: perché no? Effettivamente, aveva tutte le carte in regola per ottenere l’iscrizione all’Albo degli Avvocati, esattamente come qualsiasi altro uomo. Dunque, perché ciò doveva esserle negato solo per via del suo sesso?

Aveva superato brillantemente tutte le prove previste dalla legge, aveva l’età giusta, era forte, intelligente e in gamba. Perché non tentare? Così, Lidia Pöet, prima donna in Europa, fece domanda per l'abilitazione alla professione forense. Il Consiglio dell'Ordine di Torino, dopo una lunga, approfondita ed estenuante discussione, alla fine, con una decisione storica, accolse la sua richiesta a maggioranza.

Com’era prevedibile, una tale scelta destò così tanto scalpore che, tra chi era favorevole e chi assolutamente contrario, si diede avvio ad un asprissimo dibattito che avrebbe presto sconvolto le orecchie di mezza Europa. Era una questione senza precedenti, secondo molti del tutto inaudita e irrazionale: una donna avvocato? Quando mai si era sentita una sciocchezza simile? 

Il giorno successivo alla decisione dell’Ordine, gli avvocati Federico Spantigati e Desiderato Chiaves decisero di dimettersi per protesta a un oltraggio simile. Dato che la situazione stava degenerando a livelli inimmaginabili, il Procuratore Generale del Re impugnò il decreto della Pöet e così la Corte d’Appello di Torino annullò l’iscrizione, giustificandosi tramite l’argomentazione che la professione forense dovesse essere qualificata come un ufficio pubblico e perciò, in quanto tale, l’accesso fosse, per legge, vietato alle donne. 



Il giorno 4 aprile 1884, la Corte di Cassazione di Torino le diede il colpo di grazia definitivo, rigettando il ricorso presentato dalla donna tramite una sentenza che confermava il provvedimento di cancellazione già emesso dalla Corte d’Appello.


“La questione sta tutta in vedere se le donne possano o non possano essere ammesse all’esercizio dell’avvocheria (…). Ponderando attentamente la lettera e lo spirito di tutte quelle leggi che possono aver rapporto con la questione in esame, ne risulta evidente esser stato sempre nel concetto del legislatore che l’avvocheria fosse un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non dovevano punto immischiarsi le femmine (…). Vale oggi ugualmente come allora valeva, imperocché oggi del pari sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare (…) per non dir d’altro, si vedessero talvolta la toga o il tocco dell’avvocato sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri, che non di rado la moda impone alle donne, e ad acconciature non meno bizzarre; come non occorre neppure far cenno del pericolo gravissimo a cui rimarrebbe esposta la magistratura di essere fatta più che mai segno agli strali del sospetto e della calunnia ogni qualvolta la bilancia della giustizia piegasse in favore della parte per la quale ha perorata un’avvocatessa leggiadra (…).” 


Di conseguenza, la neo-avvocata fu radiata dall’Albo e l’ordine naturale delle cose prestabilito. O, perlomeno, questo fu sicuramente quello che pensarono quei buontemponi della Corte. Ma ciò non fu sufficiente per fermare una donna con la caparbietà di Lidia Pöet: in barba alla sua cancellazione dall’Albo, continuò comunque a collaborare nello studio del fratello, dove esercitò ugualmente la professione legale, seppur non in modo ufficiale. Nella serie Netflix viene messa molto in risalto la concezione ottocentesca della donna in Italia: Lidia viene chiamata “signorina” e non “avvocata” dal Giudice, poi viene discriminata dai colleghi uomini e dalle guardie carcerarie; inoltre, viene sbeffeggiata dal suo stesso fratello avvocato, che la invita dapprima a cercare marito e poi a dedicarsi al lavoro di insegnante, più consono a lei.

Le ragioni addotte dagli oppositori alla carriera femminile in avvocatura erano essenzialmente suddivise in due fazioni: l’una di carattere “medico”, l'altra più giuridico – sociale. 

Riguardo il primo punto, si credeva che le donne, a causa del ciclo mestruale, non avrebbero avuto, almeno per circa una volta mese, la giusta serenità per esercitare la professione. La seconda obiezione, invece, faceva più riferimento alle condizioni sociali dello status femminile: le donne non potevano essere testimoni per i processi dello Stato Civile o per le volontà testamentarie, inoltre erano assoggettate alla volontà del marito, che dovevano seguire in ogni suo minimo trasferimento o cambiamento di domicilio. Per questo permettere loro di svolgere l’attività d'avvocato sarebbe stata lesivo per i clienti, perché esse erano effettivamente prive di tutte le facoltà giuridiche.



Naturalmente i movimenti femministi e le forze progressiste ribattevano con foga a tali illazioni; nel frattempo, il numero di donne laureate in legge e che avrebbero poi voluto esercitare la professione andava aumentando. La stessa Pöet non si arrese mai e votò la sua vita alla rivendicazione dei diritti di chi non aveva voce: i minori, le donne e i detenuti. Frequentò le platee dei Congressi penitenziari internazionali, e, grazie anche al suo operato, nacquero i Tribunali dei minorenni, il cui fine passò dall'infliggere la pena al recupero e al reinserimento nella società, valori perpetrati ancora oggi dalla nostra Costituzione attuale. 

Alla fine, dopo tanti anni di aspre battaglie, Lidia Pöet ottenne la sua rivincita. Grazie ai movimenti femministi, nel 1919 il Parlamento approvò finalmente la legge che ammetteva le donne ad accedere ai pubblici uffici, ad eccezione della magistratura. Così Lidia, all’età di ormai sessantacinque anni, fu finalmente libera di iscriversi all’Albo, coronando il sogno di una vita passata a combattere per ciò che avrebbe sempre dovuto essere un suo diritto. 

E oggi? Che dire, secondo i dati del 2022 le avvocatesse sono il 50,03% del totale, numero in crescita ogni anno. In magistratura, il 55% degli incarichi è ricoperto da donne: il primo concorso di magistratura aperto alla figura femminile fu bandito nel 1963 e fu vinto da ben otto donne, entrate in servizio nel 1965. 

Alla fine, insieme a Lidia, possiamo dire di aver vinto un po’ anche noi. 



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