“Quando fu il mio turno, fui buttata fuori, piccola e gialla con gli occhi chiusi. Non piansi. Ma al momento della mia nascita in questo mondo, in qualche modo ho sentito che era stato commesso un errore.”
Parlare di una personalità così appartatamente importante nel mondo dell’arte contemporanea come Tracey Emin è prendere per mano un’anima scorticata, così esposta e nascosta da palpitare come carne viva e sofferente.
Esponente di spicco del collettivo artistico britannico Young British Artist (nato tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta), assieme ad altri artisti cardine del tempo come Damien Hirst, Ian Davenport e Marc Quinn, Tracey Emin ha fatto del suo esistere travagliato una vera e propria dichiarazione d’amore verso quel senso di appartenenza che solo l’arte è riuscita a darle; dalla disfunzionalità palese della sua famiglia al terribile abuso subito a tredici anni, dagli amori assordanti nella loro intensità alla ricerca continua, spasmodica e attuale della bellezza di quel dolore attraverso la sua arte controversa eppure così dolce.
Una rappresentazione della vita truculenta tanto e talvolta più della catartica esternazione dell’essere insita nell’azionismo viennese, dove non c’è bisogno della spietatezza visiva del sangue (seppur sporadicamente presente) per comprendere uno spirito così indomito nell’affrontare la sofferenza.
“Penso che il sangue sia ancora un tabu, indipendentemente da che buco sgorghi. Il dolore è anche un tabu, non ci possiamo più permettere di sanguinare o provare sofferenza. La vita deve essere molto pulita.”
Il letto disfatto ed ansimante di “My bed”, una delle sue opere più famose che le è valsa la nomina per il Turner Prize, rappresenta il profondo legame dell’artista con i suoi fantasmi amari: l’esatta rappresentazione del letto dove Tracey per giorni ha dormito, amato, mangiato, fumato, pianto e bevuto in seguito alla rottura di una relazione; bottiglie ed avanzi di cibo sparsi, biancheria intima e mozziconi di sigarette raccontano il dolore e lo abbracciano mostrandolo al mondo.
Un’arte che con tenera rabbia ti accompagna in un’esistenza ricca di amore, in “Everyone I Have Ever Slept With 1963-1995” l’artista raccoglie sotto una tenda tutti i nomi delle persone con cui ha dormito, ma non si tratta solo di amanti (come credeva la pruriginosa pudicizia borghese); sotto quel tetto di stoffa ci sono anche i nomi della nonna, del fratello, di tanti amici. La forma più estrema di fiducia, il mostrarsi totalmente vulnerabili soprattutto dal punto di vista fisico racchiuso in una capanna accogliente dalle luci calde.
Indispettisce l’opinione pubblica negli anni 2000 con il progetto “Neon”, innumerevoli parole d’amore intrecciate nei tubicini multicolori delle luci al neon, e di fronte a chi equiparava quelle splendenti dichiarazioni alle insegne dei supermercati (o addirittura a quelle di un bordello) ancora oggi si staglia in cima alla stazione di St.Pancras International a Londra la struggente opera I want my time with you, sotto al grande orologio.
Grazie al profondo affetto verso le opere del pittore austriaco Egon Schiele, e la sua rappresentazione del femminile come vorace e spigoloso, capace di amore e dolore oltre ogni misura, dopo essere guarita da un cancro alla vescica che non le ha portato via la voglia di urlare la sua pena per far capire al mondo quanto è amato, nel 2021 espone quindici tele nella mostra “You Should Have Saved Me”; lavori viscerali e senza filtri che descrivono il percorso in cui il male l’ha accompagnata.
Una nuvola di sangue, così si è descritta, decisa più che mai a creare ancora il futuro dal dolore.
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